Fonte: AgoràDiCult del 29/03/2020
La tematica è molto forte e attuale. “Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli.” (Tonino Cantelmi).
Milioni di utenti, soprattutto i più giovani, sentono un irrefrenabile desiderio, un bisogno imperante di essere sempre connessi. Cresce ogni giorno il numero di utenti che cadono nella rete dei social network, schiavi dell’iperconnessione. Questo termine, sempre più diffuso tra gli specialisti, non gode ancora di una definizione ufficiale; tuttavia, secondo uno studio pubblicato su una prestigiosa rivista inglese:“ il bisogno di rimanere collegati a internet e ai social network è più irresistibile di quello di fumare una sigaretta, bere una bevanda alcolica o avere rapporti sessuali.”
Come risulta evidente, anche le relazioni sociali si vedono compromesse da tale dinamica. Sebbene internet possa essere un fantastico strumento per facilitare i contatti con amici e familiari, presenta anche un aspetto negativo, come la creazione e il mantenimento di “vincoli liquidi”, così chiamati perché più superficiali. Tali vincoli causano una sensazione di vuoto e malessere, tanto che questo fenomeno provoca anche un forte impatto sull’autostima, in particolar modo tra gli adolescenti.
Questi, sebbene vivano un naturale processo di creazione e affermazione della propria identità, ripongono nelle relazioni personali un’enorme importanza nel definire il loro sviluppo identitario. È per questo motivo che le relazioni superficiali online provocano insicurezza, una falsa idea di gradimento di sé e una personalità poco consistente.
ELENA PARASKEVA: VACANT CHILDREN
Ce lo descrive per immagini in modo davvero efficace e altrettanto forte la fotografa Elena Paraskeva, nel suo lavoro VACANT CHILDREN. Con un linguaggio surreale secco e deciso, l’autrice inquadra in maniera inquietante la connessione H24 degli adolescenti, sfruttando ogni componente per creare un ambiente distaccato nel quale solo attraverso il filo rosso delle connessioni tecnologiche si può comunicare. L’opera consta di sole 10 immagini sterili e piatte, in cui la profondità è annullata sia in senso letterale sia come spessore delle relazioni in rete, colori dai toni gelidi, ambientazioni senza riferimenti che isolano da qualsiasi contato esterno.
La genialità nel raffigurare i ragazzi in una sorta di uniforme e in una bolla di vetro mostra l’essere completamente assorbiti in un mondo virtuale che si sovrappone ed elimina quello reale. Chi non è connesso, vedi il filo rosso spezzato che non lo lega all’altro, è tagliato fuori, è solo, è perso, allo stesso modo di chi perde consensi, contatti sui social. Se un bambino è offline non riesce a socializzare, quando gli basterebbe allungare la mano, alzare lo sguardo per vedere l’altro che gli è a fianco. I legami sentimentali nascono e restano relegati a facebook (le rose rosse sui due portatili vicini); nell’autoisolamento imposto dalla rete e dai social non vi è posto per i contatti diretti, nessuno si guarda negli occhi.
Intrappolati in una matrice in cui la consapevolezza del proprio essere fisico è superficiale, in cui le conoscenze e le esperienze sono esclusivamente indirette perché virtuali e filtrate dalla bolla o da un visore che li rende solo spettatori, il desiderio di impegnarsi nel mondo fisico diventa sconosciuto e forzato. Le connessioni sociali sono sottili e facilmente interrotte, spesso scartate per capriccio, portando all’isolamento e alla disperazione. Ogni immagine racconta ed è esaustiva delle dinamiche del problema, che può portare a tragiche conseguenze che rimandano all’ultima foto della serie, davvero toccante, dove bastano i palloncini con i “non mi piace”, il pollice riverso, addirittura la derisione, fenomeno conosciuto del “cyberbullismo” in rete, per annientare un ragazzo, portandolo alle più tragiche conseguenze.