L’attacco di panico

«Democratico e trasversale» il panico è un’esperienza che non fa distinzione tra uomini e donne: «Non potevo più guida­re la macchina, mi veniva la tachicardia, l’iperventilazione, mi girava la testa, mi cascava il labbro: un casino». A raccontar­lo è ancora un uomo, anch’egli molto noto al pubblico, Carlo Verdone, consumatore di ansiolitici nella vita, paziente ansio­so sul set, con i suoi gustosi personaggi sempre un po’ sfortu­nati, fragili e vittime del panico, come Bernardo, in Maledetto il giorno che t’ho incontrato, che poi si innamora di Camilla, pa­ziente del medesimo analista, pure lei ansiosa e ipocondriaca.

L’immaginario comune si rappresenta la persona soggetta a panico come una sorta di malato se non proprio immagina­rio quanto meno esagerato, che all’improvviso e in modo im­proprio è assalito da curiosi sintomi fisici che passerebbero in fin dei conti con appena un po’ di buona volontà.

Chi ne soffre vive invece con enorme disagio il proprio malessere e non lo esprime volentieri tentando di venirne fuo­ri da solo: per non dover dire apertamente che è sopraffatto da emozioni ingestibili – che lo metterebbero a rischio di una solenne diagnosi di disagio mentale – e che peraltro spesso hanno cause troppo sfumate.

È chiaro comunque che l’attacco di panico va oltre i con­fini della paura, reazione emotiva legata a una minaccia immi­nente, reale o percepita che attiva pensieri di lotta o di fuga, e della normale ansia che connota la vita ordinaria come ricordo di situazioni spiacevoli che potrebbero ripetersi, come antici­pazione di probabili eventi compromettenti la salute fisica o mentale della persona. L’ansia ha in effetti di per sé una funzio­ne sana e adattiva: è uno stato di vigilanza che fornisce infor­mazioni preziose su situazioni che andrebbero gestite meglio; che forse si sta esagerando col lavoro; che occorre prestare at­tenzione a determinati eventi imminenti. Quindi contribuisce all’organizzazione generale e quotidiana della vita, incentivan­do comportamenti prudenti, anche quando la persona non ne abbia un’immediata coscienza. Diventa però un disturbo quando è eccessiva rispetto alla realtà attuale o permanente: la persona cioè sopravvaluta il pe­ricolo nelle situazioni che teme o evita fino a compromettere il normale funzionamento della sua vita.

[…] L’attacco di panico, dicevamo, è però qualcosa ancora di diverso, è più invasivo dell’ansia e meno concreto della paura, e tuttavia ha uno status ben preciso le cui caratteristiche sono codificate nel DSM il quale prevede che esse si manifestino da sole o in concomitanza con un qualunque disturbo di ansia o di altri disturbi mentali.

Esso dunque consiste «nella comparsa improvvisa di pau­ra o disagio intensi che raggiungono il picco in pochi minu­ti, periodo durante il quale si verificano quattro o più dei se­guenti sintomi» e segue un elenco di tredici sintomi fisici e cognitivi. Se i sintomi invece sono meno di quattro si parla di attacchi “paucisintomatici”.

L’attacco può essere inaspettato quando non vi è un ele­mento scatenante chiaro al momento in cui avviene, tanto che sembra verificarsi di punto in bianco, come quando ci si sve­glia all’improvviso dal sonno; o atteso quando l’elemento sca­tenante è chiaro; inoltre nella maggior parte dei pazienti con disturbo di panico l’esposizione a situazioni ansiogene aumen­ta la possibilità di avere un attacco, ma non è invariabilmente associata a esso come avviene in altri pazienti fobici.

Si arriva quindi a parlare di disturbo di panico quando questi attacchi sono ricorrenti e improvvisi (criterio A del DSM-V) e quando almeno uno degli attacchi è seguito per un mese o più (criterio B) dalla preoccupazione insistente per l’insorgere di altre crisi o per le loro conseguenze, e/o da una significativa alterazione disadattiva del comportamento cor­relata agli attacchi (come ad esempio l’evitare situazioni non familiari)

Ciò che invalida maggiormente la persona che soffre di attacchi di panico è sicuramente la condizione di “paura della paura” per cui il soggetto vive col terrore di stare male. «Al di sotto di questa paura, ognuno esprime la ricchez­za della sua individualità: qualcuno teme il dolore e qualcuno il fatto di non essere più padrone di sé, del proprio corpo e delle proprie reazioni. Altri hanno paura di andare in luoghi in cui non potrebbero essere soccorsi, o potrebbero esporsi al ridicolo con le loro manifestazioni: tutti temono la solitudine. L’attacco di panico fa sentire terribilmente, mortalmente soli, e chi ha imparato a temere la solitudine semplicemente non regge» […]

Chiara D’Urbano: Abbiamo compreso che non esiste un’unica causa all’origine dell’esperienza di panico e questo costringe ad avere una visione olistica della persona: la sua storia, i suoi vissuti familiari, per­sonali e relazionali. Ci colpisce inoltre la “paura di avere paura”, uno specifico di chi soffre di attacchi di panico. Ma esiste un tipo di personalità più predisposto a sviluppare attacchi di panico?

Tonino Cantelmi: Un falso mito da sfatare è che la personalità di chi soffre di panico sia necessariamente fragile, scombinata, non ben svi­luppata. È un luogo comune che l’esperienza clinica agevol­mente smentisce: si tratta, nella maggior parte dei casi, di per­sonalità molto forti che esercitano un cogente controllo sulle proprie emozioni finché queste, troppo pressate, non iniziano a “fuoriuscire” a quel punto senza più controllo e lasciando nella persona la sensazione di esserne sopraffatta.

[…]

È un campanello d’allarme che si è superato il limite delle proprie forze psichiche. Questa perdita temporanea del pro­prio equilibrio può avvenire a partire da ciascuna delle quattro organizzazioni di significato personale descritte nel modello cognitivo post-razionalista di Guidano dal quale prende l’av­vio il nostro: quella fobica, quella ossessiva, quella depressiva e quella dappica, che si sviluppano attraverso la qualità delle relazioni di attaccamento e i successivi processi di adattamen­to filtrati dai modelli operativi interni.

[…]

Ciascuna storia comunque è a sé: ecco perché è importan­te individuare come la persona concretamente e nello specifi­co percepisca il proprio problema, se e come reagisca a esso, quali soluzioni stia tentando per venirne fuori. Le più diffuse e ovviamente solo fittiziamente tali (più che risolvere, come competerebbe a una soluzione, perpetuano il disagio) sono l’evitare determinati rischi associati allo scatenarsi dei sintomi ansiosi; il chiedere aiuto in una persona fisica che affianchi nello svolgimento di un compito (così da evitare di essere soli nel caso di attacco) fino a far diventare indispensabile un sup­porto sociale; comportamenti rituali che danno l’illusione di tenere la situazione sotto controllo. La terapia va ad affrontare ciascuna di queste tipiche rea­zioni del paziente alla situazione angosciante che vive.

Da: La pietra della follia, nuove frontiere della psicologia contemporanea –   dialogando con Tonino Cantelmi, di Chiara D’Urbano (Città Nuova, 2016).

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