Emozioni dal silicio

Fonte: Psicologia Contemporanea anno 2000 gen-feb n.157
Articolo di: Tonino Cantelmi e Massimo Talli

Era il 2000 quando Tonino Cantelmi e Massimo Talli pubblicavano su “Psicologia Contemporanea” un articolo dal titolo “Emozioni dal silicio”. Già allora, ben 25 anni fa, gli autori mettevano in luce il passaggio dall’intelligenza artificiale “razionale” a quella capace di simulare emozioni, anticipando temi oggi di assoluta attualità. Rileggendolo oggi, col senno di quanto l’AI sia entrata nelle nostre vite quotidiane e nei nostri processi cognitivi, questo contributo appare straordinariamente avanguardistico: aveva già colto i rischi e le potenzialità di un mondo in cui le macchine non solo pensano, ma provano – o simulano – emozioni e incidono profondamente sulla nostra mente e sulle nostre relazioni.
L’articolo trattava di come l’AI “cibernetica” si stesse spostando dal mero calcolo alla simulazione delle emozioni umane: il caso emblematico era Kismet del MIT, un robot capace di stabilire contatto visivo e “rispondere” agli stati d’animo dell’interlocutore (sorridendo, rattristandosi). Su questa scia erano arrivati sul mercato robot-giocattolo come Furby, Aibo di Sony e R100: il primo imparava parole e modulava reazioni emotive; il secondo obbediva a comandi, evitava ostacoli e mostrava “umori” con movimenti e luci; il terzo eseguiva piccole mansioni domestiche e riconosceva volti e voci. Il loro enorme successo apriva però interrogativi psicologici: più che strumenti “utili”, questi oggetti instauravano legami emotivi che potevano somigliare a relazioni interpersonali, come già avveniva con il Tamagotchi, dove perfino la “morte virtuale” generava veri vissuti di lutto nei bambini.
Gli autori riportavano un’osservazione su 12 bambini con Furby: tra i 2–4 anni emergeva un attaccamento ansioso (paura di “non accudirlo bene”); tra i 4–6 un’attivazione forte seguita da ambivalenza (cura forzata e poi rifiuto); tra i 6–8 curiosità iniziale e uso intermittente. Anche i genitori tendevano a presentare il robot come “essere vivente”, accrescendo la responsabilizzazione. Il rischio, soprattutto per bimbi già fragili o senza mediazione adulta, era che l’interazione simulata sostituisse quella reale con i pari, favorendo gestione dell’ansia per ripetizione di routine gratificanti, aumento della solitudine e ciò che gli autori chiamavano “autismo tecnologico”. Sul piano cognitivo, l’interazione con questi dispositivi privilegiava l’apprendimento percettivo-motorio a scapito di quello simbolico-immaginativo, irrigidendo l’esperienza in schemi standardizzati e confondendo i confini tra reale, immaginario e virtuale.
In prospettiva, con umanoidi sempre più verosimili, si assottigliava il confine tra macchina e uomo: le “emozioni dal silicio” consentivano esperienze nuove ma richiedevano cautela. La raccomandazione implicita era di integrare questi oggetti entro contesti di gioco con persone reali, con una guida adulta capace di decodificare, limitare e “umanizzare” l’esperienza, così da valorizzarne gli aspetti educativi riducendo i rischi emotivi e cognitivi.

Leggi tutto l’articolo

Lascia un commento